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Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Siracusa. Numero di iscrizione 01/10 del 4 gennaio 2010

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Melilli: un femminicidio d’altri tempi

2023-03-08 14:16

Paolo Magnano

News, Sicilia, 8 marzo, storia di sicilia, storie di sicilia, melilli, femminicidio, diritti delle donne, processo,

Melilli: un femminicidio d’altri tempi

La storia insegna che di femminicidio le donne sono sempre state vittime

In questi ultimi anni sono sempre più ricorrenti le notizie diffuse dalle televisioni e dai social di donne ammazzate da uomini che mal sopportano la loro intraprendenza e autonomia nelle scelte di vita. Sono tanti gli uomini che uccidono le proprie mogli, le proprie compagne o le proprie fidanzate: tutte donne che non si sono piegate alla mania di sopraffazione degli uomini. Secondo le statistiche di questi ultimi anni, in Italia si registra un femminicidio ogni due giorni: un numero talmente alto, da far schizzare in alto la statistica di donne soppresse con atti violenti da uomini incapaci di condividerne le idee e le scelte altrui.

Un crimine odioso figlio di una sbagliata concezione dell’uomo che nei millenni ha coltivato l’idea di essere superiore alla donna, nata solo per essere sottomessa; per cui mal sopportando l’esigenza di indipendenza della stessa, reagisce con tanta violenza fino ad arrivare alla sua soppressione. Eppure, quando nella preistoria cominciarono a formarsi i primi nuclei sociali e le famiglie divennero il nucleo centrale dell’organizzazione tribale, erano le donne deputate a organizzare i rapporti sociali, essendo gli uomini dediti al lavoro e alla caccia. La società matriarcale si reggeva, infatti, sul rispetto delle donne, da cui si origina la vita e quindi la continua presenza dell’uomo sulla terra. A lei era delegato il concepimento dei figli, la loro crescita e l’organizzazione della casa, dove viveva in condizione subordinata al marito. D’altronde la donna, così come si legge nella Bibbia, era stata la causa di tutti i mali a cui l’uomo era stato condannato, in quanto, mangiando dell’albero proibito, aveva disubbidito al divieto divino.

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L’uomo, dunque, nel corso dei secoli, ha creato quelle leggi che gli hanno permesso di sottomettere la donna alla sua volontà. Però, quando la donna si è ribellata al dispotismo dell’uomo, quest’ultimo ha sempre reagito usando violenza bruta, fino ad ucciderla pur di affermare la propria “supremazia”. 

Tante volte il femminicidio è stato ed, ancora oggi, giustificato con comportamenti scorretti della donna, con gelosia scatenata da presunti tradimenti o con la pazzia. Anche a Melilli, piccola cittadina iblea, nel tempo si sono verificati casi di soppressione violenta di donne ad opera di mariti gelosi o malati di mente. Alcuni di questi atti efferati sono tramandati ai posteri da una semplice lapide, che ricorda il nome della donna uccisa e ne sintetizza l’accaduto (Qui giace N.N. ventitreenne, buona quanto infelice. Da truce malvagità spenta).

Uno di questi femminicidi, purtroppo non il solo, ebbe luogo nel 1873 e addirittura fu oggetto di studio di medici di psichiatria, la nuova scienza che si andava affermando grazie a Freud e alla scuola di Vienna. Il 28 settembre 1873, dai vicini di casa, accorsi alle urla del marito, Sebastiano Aresco, venne trovata priva di vita la giovane moglie trentenne, Emmanuela Abramo. Lui, di anni 34, “uomo di bassa statura e fisicamente robusto”, gestore di un salone da barba e di una merceria, Lei, “giovane di forme avvenenti, d’illibati costumi, buona massaia e piena d’affetto pel marito”, erano sposati da dodici anni.

La giovane donna venne trovata distesa supina sul letto e apparentemente non presentava alcun segno di violenza sul corpo, mentre il marito, che si trovava in un angolo della casa, teneva in mano una tazza di acqua calda e ripeteva continuamente ai vicini, sconvolti dalla scena del delitto, che la moglie era morta a causa di una indigestione.

Nessuno dei presenti, però, credette alla versione fornita dal marito; invece si pensò subito ad un delitto passionale, possibilmente scatenato dalla gelosia, anche se dalle testimonianze prodotte nel corso del processo molti riferirono che la sera prima avevano visto i due coniugi insieme e in atteggiamenti affettuosi. 

Stando alla testimonianza di Sebastiano Ruffino, però, il feroce femminicidio dovette avvenire nel corso della notte, in quanto “Transitando di là (vicino l’abitazione dei due coniugi) sente i gemiti dell’infelice donna e vede l’Aresco che apre e chiude la porta, protendendo fuori la testa quasi spiasse i movimenti di coloro che passavano. Allora dovette avvenire che il marito ferì la moglie, la quale dopo pochi intervalli se ne morì” (Cfr. Questioni Sociali Mediche e Medico – Forensi, Trattate coi principi della fisiologia del cervello). 

La giovane donna fu colpita con uno spillone infilzato tra le costole, che penetrò la cavità toracica destra. Uccisa la moglie, l’Aresco si industriò per camuffare il delitto: “Corse tosto a svestire l’uccisa, le lavò la ferita, le mise altra camicia e poi la distese supina sul letto; sotto la schiena le agglomerò un lenzuolo; le legò ai piedi un corpetto o gilè d’uomo. Quindi cominciò a piangere continuamente, gridando: Maniilluzza mia, comu ti persi ciatu miu” (Questioni, cit.).

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Nonostante questa messa in scena, subito i sospetti si indirizzarono sul marito, che, per sfuggire alle ire dei familiari, si rifugiò da un suo cognato a Catania, dove venne arrestato con l’accusa di omicidio volontario premeditato in persona della propria moglie Emmanuela Abramo. Sottoposto a stringente interrogatorio, l’Aresco tentò in tutti i modi di accreditare la tesi dello stupro e del susseguente omicidio, dichiarando che la sera della morte della moglie era uscito di casa per andare a prendere dell’acqua nella cisterna, che si trovava nella vicina piazza e al rientro aveva visto tanta gente davanti alla porta di casa sua, che affermava che sua moglie era stata uccisa da persona che prima ne aveva abusato. Ma, nonostante questa messinscena, il marito non fu creduto dagli inquirenti, anche perché la tesi sostenuta strideva con le testimonianze dei vicini di casa, che sottolinearono gli strani comportamenti dell’Aresco nei confronti della moglie. Tutti furono concordi nell’evidenziare come la moglie amasse il marito, nonostante gli strani e singolari comportamenti di lui.

Per questo “Le stravaganze dello Aresco erano oggetto di discorso nel suo piccolo paese e tutti i testimoni a di lui carico, il fratello e la madre della moglie, querelanti, hanno svelato una serie di fatti di quell’indole bizzarra” (Questoni, cit.). 

Molto spesso, la moglie, mentre era intenta ad accudire alle faccende domestiche, veniva bagnata a sorpresa con un secchio d’acqua fredda e costretta a rimanere immobile con gli abiti inzuppati d’acqua senza potersi asciugare. 

Qualche volta il marito le tagliava i capelli con le forbici e spesso infieriva sul corpo della moglie procurandole dei tagli sulla pelle, nelle orecchie e sulla testa. Tagli che i periti riscontreranno, anche dopo la morte, nell’esame autoptico eseguito sul cadavere della moglie.

“Nel cuore dell’inverno, poi, l’Aresco bagnava la moglie nel modo più capriccioso da destare l’attenzione del vicinato. Mentre essa accudiva a sue faccende, a sorpresa le buttava una secchia d’acqua: la poveretta non poteva rischiarsi di scuotere gli abiti inzuppati ma doveva rimanere ferma. Spesso anche le imponeva di vestirsi a nuovo, la faceva pettinare, anzi la pettinava lui stesso: poi la facea situare in mezzo della stanza, le toglieva gli arnesi di lavoro, e dopo un istante che la contemplava, le lanciava un bacile d’acqua senza che essa potesse dir parola” (Questioni, cit.).

L’ultima minaccia, sentita dai testimoni che frequentavano la bottega, fu quella che alla fine si rivelò esatta. Rivolgendosi agli avventori, l’Aresco pronunciò parole minacciose verso la moglie: “Allegri ca Duminicaria Maniilluzza, si Gesù Cristu voli, devi essere ammenzu a casa”. E così fu: Emmanuela Abramo proprio quel giorno fu trovata morta, uccisa in modo violento dal marito.

Nel corso del processo, l’avv. Giaracà, che difendeva l’accusato, chiese che Sebastiano Aresco fosse sottoposto a perizia psichiatrica (la madre era morta pazza; il nonno in un eccesso di follia aveva ucciso la propria moglie; la sorella in paese era chiamata “matta”), ma gli psichiatri di Palermo, dove era stato inviato, dopo aver esaminato le condizioni psichiche, conclusero sostenendo che l’Aresco, quando commise il femminicidio, era nel pieno delle facoltà mentali. Scrissero, infatti, i periti dell’Ospizio di Palermo, a conclusione della perizia medica: “Sebastiano Aresco non è e non è stato mai pazzo. Egli è responsabile delle sue azioni in faccia alla giustizia e nell’attualità può venir giudicato”.

Per cui la Corte d’Assise di Siracusa, facendo proprie le conclusioni dei periti di Palermo, condannò Sebastiano Aresco da Melilli di anni 38 ai lavori forzati a vita. 

 

 

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