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La metafora ne "L’olivo e l’olivastro" di Vincenzo Consolo

2022-01-18 13:07

Paolo Fai

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La metafora ne "L’olivo e l’olivastro" di Vincenzo Consolo

Dalle parole del grande scrittore siciliano, la metafora dell'intellettuale come un moderno Ulisse che compie il suo viaggio

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Una grande e suggestiva metafora campeggia nell’opera di Vincenzo Consolo (1933-2012), anche là dove essa non è manifesta. Ad essa Consolo ha dedicato pure un libro, che già nel titolo ne esplicita l’importanza pregnante, decisiva, di cui l’autore l’investe: L’olivo e l’olivastro.

Consolo trae questa metafora dall’episodio di Ulisse naufrago dall’ultima, tremenda prova cui gli implacabili dèi, e il dio del mare in specie, hanno sottoposto l’eroe dalle molteplici risorse, prima del suo ritorno nella tanto sospirata Itaca. Ulisse è approdato, sfinito, nudo, alle sponde dell’isola di Scheria, la terra degli ospitali Feaci. Qui trova riparo sotto «due arbusti nati da un medesimo ceppo: uno d’olivo, l’altro d’olivastro. Mi è sembrata, l’immagine, un simbolo della biforcazione, dei due sentieri o destini che s’aprono nella vita d’un uomo, nella storia d’un paese; del coltivato e del selvatico, del civile e del barbarico. Mi è sembrato il simbolo più pregnante della Sicilia, la quale diventa sempre, come si dice, metafora dell’Italia (dell’Europa, del mondo?)».

Chiosare la parte finale della citazione è necessario, anche se forse superfluo. È, ancora una volta, un omaggio al suo Maestro, al maestro di Regalpetra, al Leonardo Sciascia che ha universalizzato quell’espressione, intitolandole persino un libro capitale nella sua pur tutta fondamentale bibliografia, La Sicilia come metafora: libro-intervista scritto insieme con la giornalista francese Marcelle Padovani, corrispondente in Italia del Nouvel Observateur.

Per Consolo la Sicilia vive in continuo precario equilibrio tra ragione e irrazionalità, tra sapienza e insipienza, tra luce e tenebre, come se mai possa essere definitivamente conquistata al rigore del ragionamento, che non significa però escludersi dall’ineffabile mistero della poesia. Poesia e ragione possono convivere e tante pagine della letteratura, anche siciliana, ne sono la prova lampante. Tra queste, certamente e fuor di ogni dubbio, le pagine della prosa poetante del Sorriso dell’ignoto marinaio. Qui Consolo ha dato forma a quella metafora cui s’è accennato in apertura, incarnandola nei personaggi e nelle vicende in cui essi sono coinvolti. Insomma, quella metafora simboleggia la condizione esistenziale in cui ogni uomo, e ogni uomo siciliano – verrebbe di dire – ancor più, viene a trovarsi nei molteplici appuntamenti con la Storia.

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Molteplici, dunque, le epifanie di quel simbolo nel romanzo. E non sarà pura stramberia affermare che essa corre sottotraccia nelle pagine del Sorriso. Se l’olivastro è segno della natura che assume le sue forme secondo un progetto noto solo a lei, che procede lungo un itinerario autocreativo, che sarà pure finalizzato a qualcosa, ma di cui l’uomo ignora cui prodest, ‘a chi giova’ – come il pastore errante dell’Asia di leopardiana memoria che chiede alla luna il “significato” delle innumerevoli luci che brillano in cielo e di tanti altri fenomeni naturali, fino alla domanda cruciale sul senso della vita –, l’olivo è la natura cui l’uomo ha imposto un corso ben preciso alle infinite potenzialità cui essa è vocata, è la natura plasmata verso un fine “buono” per l’uomo. Nell’uomo, impasto di natura e di storia, convivono istinto e ragione, ferinità e civiltà.

Ma con quale altro termine possono essere indicate quelle categorie animalesche attribuibili senza scandalo anche all’uomo (chi si scandalizza più dopo Freud?). Un termine c’è, ed è egoismo. Questa è la forma di ferinità di cui l’uomo è un grande campione e che, col cambiar dei tempi e delle situazioni, egli, mai potendo, pur volendo, domarla del tutto, o dissimula o ostenta.

Come forse è in questi tempi grami, segnati da una diffusa pratica di egoismo di massa, capillarmente inoculata nelle coscienze delle moltitudini dal mostro mediatico, formalmente seducente, che è la televisione e i nuovi social media, della cui devastante azione di inebetimento e di abbrutimento morale si è ancora lontani dal cogliere l’effettiva portata.

Pur in una situazione sideralmente distante anche Mandralisca, l’intellettuale Mandralisca, si muove dentro un orizzonte di egoistico culto di sé. È il rischio che sempre colpevolmente finiscono col correre quanti trescano con le idee. Non solo. Ma, scendendo nell’abisso del solipsismo mentale, formano mondi abitati da uomini che esistono solo nella loro fantasia, mentre oltre la finestra il mondo pullula di uomini veri.

Ora, chi guarda ai destini degli uomini scambiando l’umanità per il proprio “ego”, finisce con l’imporre la sua ‘visione del mondo’ all’umanità. Nel peggiore dei casi abbiamo lager, gulag, campi di rieducazione, desaparecidos, stermini di massa, deportazioni. Nel migliore dei casi abbiamo una società monca, zoppa, con un potere che – mentre gli intellettuali si guardano l’ombelico – si perpetua nella banalità procedurale dell’amministrazione del quotidiano e nell’autoreferenzialità, cioè nella difesa dei propri interessi e di quelli dei potentati economico-finanziari che ne sono l’architrave. Se l’intellettuale è sempre rivoluzionario e alternativo al potere, secondo la mai eludibile lezione vittoriniana, allora l’intellettuale che si rinchiude nel proprio hortus conclusus, occupandosi di astronomia o di conchiglie, di frattali o di antichi eroi, dimentico dell’uomo che, in carne ed ossa, pena e soffre ogni giorno in una società che è un verminaio di ingiustizie, è un vero mostro di egoismo e un deprecabile don Ferrante di manzoniana memoria, la cui inutilità (mai parola ha, come in questo caso, un significato così denso: l’uomo che non è “utile”, che non giova ad un suo simile, non è meritevole di essere chiamato uomo) solo la superiorità morale di Manzoni può sbriciolare con l’arte sublime dell’ironia.

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Consolo è consapevole che il rischio dell’abbandono dell’“impegno” da parte dell’intellettuale è sempre incombente, o, per converso e specularmente, che l’intellettuale, come il professor Laurana del romanzo A ciascuno il suo di Sciascia, è giudicato, nella comune cultura della connivenza mafiosa e accomodante, “un cretino”, ovvero una persona inutile, anzi dannosa agli interessi forti delle classi dominanti, ma fortissima è in lui, in Consolo dico, la vocazione a testimoniare, a denunciare in prima persona gli intrighi e le imposture del potere, dei potenti. E altrettanto fa, nella proiezione fantastica, con i suoi personaggi ‘positivi’. Così con Mandralisca, che, davanti ad un evento decisivo della storia, della “sua” storia, attua una rivoluzione copernicana, rivolgendo la sua attenzione e le sue cure dal mondo dei molluschi invertebrati – causa di piacere solitario e tutt’al più circoscritto al breve giro dei savants – al riscatto del mondo degli untermenschen, dei “sottouomini”, dei ‘sommersi’, scelta etica in somma grado, perché volta al bene della società umana.

Quanto lontana dalla ricerca dell’azione volta al bene comune, del gesto che imprime una svolta alla storia e che tende a modificare i rapporti di forza in pro degli sfruttati, la smagata osservazione di don Fabrizio a Chevalley che «il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare»! È un’altra Sicilia, quella che dalle pagine del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa si profila, una delle cento Sicilie, di questa nostra isola plurale, come la definì Gesualdo Bufalino in un bel libro scritto a quattro mani con Nunzio Zago (Cento Sicilie, La Nuova Italia, Firenze 1993), che ci inquieta e interroga sulla complessità della nostra identità, tanto sfaccettata da suscitare dubbi pirandelliani se noi siciliani siamo uno, nessuno e centomila. Il principe di Lampedusa e la sua proiezione letteraria, don Fabrizio Corbera, non hanno mai creduto all’impegno perché sono stati sempre dalla parte dei vincitori e sfruttatori, e al mondo subalterno hanno sempre guardato con alterigia e disprezzo, nella persuasione che la storia avrebbe proceduto sempre allo stesso modo. Ma la storia, talvolta, va oltre la “defension de li senni umani”, prende strade o scorciatoie impensabili per gli uomini, persino per quelli che pensano di poterla imbrigliare e volgerla in loro favore. Così, nell’imminenza di una rivoluzione che spariglierà le loro carte, i don Fabrizi si ritraggono nella penombra di un mondo in dissoluzione, a godersi “gli ultimi giorni di Pompei”, le ultime pagine di un lunghissimo capitolo di una storia che sembrava infinita. La loro morale rinunciataria, tuttavia, chiusa nel cerchio ristretto dei propri interessi privati, è quella che inoppugnabilmente non solo lascia ampi spazi di manovra ai poteri “forti” della reazione e della conservazione, ma instaura connivenze, collusioni, corruzioni, ampiamente documentate dalla storiografia sui rapporti tra mafia e politica, con l’“altro Stato”, quello mafioso, interessato a  mantenere lo “status quo”, a impedire che lo Stato costituzionale e democratico si affermi, si consolidi e tuteli i deboli e gli oppressi.

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La tentazione di regredire a livello di olivastro, di inselvatichirsi nel culto di sé e nel disprezzo della dolente condition humaine delle classi oppresse, di farsi complice delle colpe della storia, Consolo la esorcizza indicando all’intellettuale, allo scrittore, quella che gli appare l’unica possibilità rimastagli davanti ai «mostri concreti, reali che tutti noi abbiamo creato (tutti noi abbiamo scatenato le guerre, creato i campi di sterminio, le pulizie etniche, lasciamo morire per fame la stragrande maggioranza dell’umanità…). […] Narrare oggettivamente, in terza persona, dei mostri, delle mostruosità che abbiamo creato, con cui, privi ormai di memoria, di rimorso, privi dell’assillo di raggiungere una meta, da alienati felicemente conviviamo».

Anche se – come gli obietta il suo interlocutore Mario Nicolao a pag. 24 del libretto Il viaggio di Odisseo (Bompiani 1999) – «c’è un ulivo anche alla base della nostra odissea odierna» (poco prima Consolo aveva citato una frase di Paul Claudel, «La racine de l’Odyssée c’est un olivier», “la radice dell’Odissea è un olivo”), Consolo ribatte che «alla base della nostra odissea moderna credo che ci sia solo l’olivastro, l’olivo selvatico: tempeste e naufragi, inganni o oblii, mutazioni, regressioni, perdite. […]. Mentre in Ulisse il ‘selvatico’ e il ‘coltivato’ non confliggono, anzi si completano, “nell’odissea moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro ha invaso il campo».

Spetta, ancora e sempre, alla poesia, all’arte, alla letteratura, all’“umile ginestra” leopardiana, mentre la “strage delle illusioni” farebbe inclinare al pessimismo, additare una radura nella selva, un lucore nelle tenebre, un’oasi nel deserto della vita, costruire una speranza sulle macerie della Storia.

 

 

©riproduzione riservata

Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Siracusa. Numero di iscrizione 01/10 del 4 gennaio 2010

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