C’era un tempo, non molto lontano, in cui la solidarietà sociale era affidata alle famiglie, che offrivano agli indigenti la possibilità di potersi sfamare.
Allora non esistevano, se non in particolari contesti, associazioni di volontariato, né donazioni che potessero intervenire per cercare di risollevare le condizioni di estrema povertà in cui viveva la maggior parte delle famiglie formate da numerosi componenti.
Molto spesso era una grazia ricevuta da un Santo che faceva scattare il mantenimento della promessa fatta e metteva in moto quel meccanismo di solidarietà che, il più delle volte, si tramandava di generazione in generazione con l’obbligo di mantenerla e metterla in pratica.
Alla base di tutto c’era la forte devozione verso i Santi (soprattutto i patroni), che venivano implorati nei momenti di bisogno e necessità (a Melilli, San Sebastiano; a Sortino, Santa Sofia, patroni delle rispettive cittadine).
San Giuseppe, invece, era il Santo Protettore della famiglia (infatti aveva protetto la famiglia di Nazaret) e dei falegnami: a Lui si rivolgevano, nei momenti di necessità, le famiglie e gli artigiani del legno. In ogni casa, poi, troneggiava in bella mostra l’immagine del Patriarca, raffigurato, all’interno della Sacra Famiglia, con in braccio il bambino Gesù; o all’interno della bottega artigiana, con accanto un piccolo Gesù che lo aiutava nei lavori di falegnameria.
Un’icona che, ancora oggi, ci fa capire quanta devozione si aveva verso questo Santo, padre putativo di Gesù, invocato per proteggere la famiglia, ma anche il lavoro: infatti la chiesa lo festeggia anche il 1° maggio Festa di San Giuseppe operaio, protettore dei lavoratori.
Così recitavano i nostri nonni: "Patriarca ‘mmaculatu,/di Gesù custòdiu amatu,/castu spusu di Maria,/prutiggiti e sarvati l’arma mia" (Cfr, G. Pitrè, Spettacoli e Feste Popolari siciliane).
Il momento che dava un senso alla solidarietà, così come veniva intesa un tempo era, dunque, la festa di San Giuseppe, che la chiesa festeggia il 19 marzo, tempo di primi tepori primaverili: la natura si risveglia dal lungo torpore invernale ed esplode in una campagna variopinta e colorata, dove la molteplicità dei colori (rosso, giallo, arancione, viola, ecc.) crea un’atmosfera di gioia.
La festa, infatti, era caratterizzata da questa moltitudine di colori, che la rendevano unica: ampelodesmo, violaciocca (balicu, da balicum "bastone" per ricordare il bastone fiorito di S. Giuseppe), margherite prataiole erano i fiori che i contadini devoti offrivano al Santo.
Di questa esplosione di colori, San Giuseppe era parte integrante: sul suo bastone, infatti, venivano agganciati mazzetti di fiori multicolori in segno di ringraziamento per il ritorno della “vita” dopo il lungo letargo invernale.
Protettore, anche, degli orfani e delle ragazze, S. Giuseppe veniva invocato dagli uni perché li soccorresse e sostenesse, dalle altre perché desse o trovasse un partito buono e profittevole. Proprio per questo un proverbio recitava: "San Giuseppi, ajutati a li schetti, cà li maritati s’ajutunu iddi " (G. Pitrè, cit.).
San Giuseppe, per la Chiesa, era, dunque, il santo tutelare dei poveri, degli orfani e di chiunque versava in gravi ristrettezze economiche e tutti gli aiuti erano opera della sua intercessione. Per cui, nel contesto della società agropastorale, era il Santo sotto la cui protezione la famiglia povera poteva trovare conforto e solidarietà dagli altri. La sua festa, infatti, in quasi tutti i paesi degli Iblei, era caratterizzata da una gara di solidarietà che coinvolgeva le famiglie benestanti che avevano fatto un voto o avevano promesso un pasto caldo a quanti ne avevano bisogno.
A questa prerogativa solidale e di condivisione era collegata, nei secoli scorsi, "a minestra i San Giuseppi" (il banchetto di San Giuseppe) che veniva preparata ogni anno, per devozione o per voto, il 19 marzo, appunto.
A Melilli, la preparazione della minestra di San Giuseppe era molto sentita in tutte le famiglie, che già dalla vigilia della festa cominciavano a preparare gli ingredienti necessari per la cottura di questo particolare pasto. La vigilia della festa, infatti, dalle campagne arrivavano legumi (fave, fagioli, ceci, lenticchie) e verdure (cavoli, finocchi, sedani, lattughe, urrani "borragine", nivia "indivia", ecc.), che venivano tagliati e puliti per essere pronte il giorno successivo.
Allo spuntare del sole, la minestra veniva fatta cuocere nelle quarare (calderoni di rame) posizionate su grosse pietre e poste davanti alle porte lungo le strade cittadine.
Tutti, non solo i familiari ma anche i vicini erano indaffarati, fra la curiosità dei passanti, alla buona riuscita della minestra; per, cui si assisteva ad un continuo rincorrersi di quanti preparavano non solo la minestra, ma anche la tavola dove ospitare le persone che si avvicinavano con le scodelle per ricevere la propria porzione.
Alle undici in punto, mastro Reginaldo ordinava che si mettesse nelle caldaie la verdura "a fogghia" (o cazzamarri, mazzi di verdura assortite da fare cuocere tra i legumi); poi lui stesso con le mani metteva il pepe e l’olio nella minestra (Cfr., S. Crescimanno, Saggi folkloristici e novelle).
Quando la minestra era cotta, si registrava una lunga processione di poveri (ma anche di famiglie un tempo benestanti ed ora cadute in disgrazia) che, con la scodella in mano facevano la fila per riceverne.
Anche la Sacra Famiglia partecipava a questa tradizione: infatti, i componenti pranzavano in case private, ospiti di famiglie che avevano fatto voto a San Giuseppe. Per cui vedevamo, la Madonna pranzare seduta al centro, mentre San Giuseppe e il Bambino le stavano accanto: il tutto con un contorno di amici, parenti e curiosi che partecipavano allo spettacolo della Sacra Famiglia.
Di pomeriggio, poi, in piazza S. Rizzo a Melilli, aveva luogo la vendita dei doni, che erano stati raccolti la mattina per le vie del paese dai cittadini appartenenti al comitato dei festeggiamenti, accompagnati dalla banda musicale. Erano i componenti del comitato, formato da falegnami a ricevere i doni dai devoti (ciambelle, focacce con acciughe e cipolle, asparagi, agnelli, galline, uova, ricotte, ecc.) prima di essere messi all’asta. Dopo la benedizione da parte del padre predicatore, il banditore cominciava l’asta molto partecipata dai cittadini che facevano le loro offerte secondo le promesse fatte al Patriarca.
Nella vicina Sortino, altro centro degli Iblei dov’era molto sentito il culto a San Giuseppe, invece, non vi era la tradizione della minestra condivisa con tutta la città. In questo caso si trattava di ua tradizione che riguarava le singole famiglie che preparavano la minestra per soddisfare i loro bisogni e, inq ualche caso, farne dono alla Sacra Famiglia.
Al centro della tradizione c’era, infatti, la Sacra Famiglia, impersonata da un bambino (Gesù), da una giovane donna (la Madonna) e da un anziano (San Giuseppe) e i cui componenti provenivano da famiglie povere: il Bambino e la Madonna spesso erano anche orfani (la Madonna molto spesso poteva anche essere una giovane priva di dote per sposarsi). Mentre il Bambino e la Madonna venivano sorteggiati in Chiesa Madre fra le persone più povere a conclusione della novena, colui che era scelto per impersonare San Giuseppe, invece, veniva designato per assumere quel ruolo nel corso degli anni. Questa particolare figura, ogni mercoledì, con addosso una veste azzurra, in testa un petaso e in mano un bastone di oleandro fiorito, girava per le vie del paese, annunciando la sua presenza al grido "Patriarca San Giuseppi".
Al suo grido le donne si affacciavano sulla soglia di casa e porgevano qualche offerta necessaria per potersi sfamare. La festa, con la processione, si svolgeva di mattina: l’attrazione principale era rappresentata dalla Sacra Famiglia che sfilava davanti la statua di San Giuseppe, che si venera in Chiesa Madre. Al centro c’era il Bambino, tenuto per mano dalla Madonna e San Giuseppe.
Di pomeriggio, poi, si teneva la tradizionale vendita dei doni dall’alto del palco, allestito o chianu a Matrici (in piazza Matrice), di fronte alla facciata della chiesa.
Sul palco, dove il banditore (u vanniaturi) acclamava a gran voce venivano posti i doni che i Sortinesi per promessa portavano a San Giuseppe. Era un palco pieno di prodotti tipici, specchio di una società pastorale: agnetri (agnelli), ciaretri (capretti), formaggi, ricotte, sparici (asparagi), pizzoli, pignuccati, mpanati (focacce), cutruruni co balicu (ciambelle con il balico), pirnici (pernici), cunigghi (conigli), colombi, ecc.
Sotto il palco sedeva la Sacra Famiglia, che presenziava fino alla fine alla vendita dei doni, il cui ricavato veniva poi diviso ai componenti della Sacra Famiglia: a Betra Matri (Madonna) veniva dato gran parte del ricavato, che doveva servire per la dote maritale; o Bamminu (Bambino Gesù) la restante; mentre a San Giuseppi (San Giuseppe) rimaneva la somma di denaro raccolta personalmente durante la processione. I festeggiamenti si concludevano quando l’ultimo dono veniva comprato dagli astanti. La statua di San Giuseppe, quindi, veniva riportata in chiesa e riposta sopra l’altare a Lui dedicato, nella nicchia sovrastata dalla scritta “Ite ad Joseph”.
di Paolo Magnano
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