Da quando la mafia è diventata un brand che rappresenta la Sicilia e la sicilianità all’estero? Ma soprattutto: perché da noi siciliani non si mai è levato alcun grido di sdegno rispetto alla faccenda? Per rispondere a queste domande è giusto creare il dovuto contesto.
Quando si viaggia all’estero, da bravi italiani, si tende spesso a cercare locali che ripropongano la nostra cucina per continuare a sentirci più vicini a casa. Non vi sembrerà strano, allora, trovare nel resto del mondo molti ristoranti e bar, con “cucina tipicamente italiana”, rappresentati da insegne che recitano “La Mafia”, “Lupara”, “Corleone e C.”…no, non è uno scherzo! Questa è l’esatta espressione di quello che possiamo definire “mafia brand”, un’usanza pericolosa, oltre che punibile dalla legge (ne parleremo più avanti ndr), che scimmiotta letteralmente le stragi e i morti di mafia, sfruttando uno stereotipo malsano e criminale, per puri scopi economici.
Non c’è da stupirsi, quindi, se soltanto dopo la liberazione di Palermo grazie alla “gentile collaborazione” dei capi mafia nel 1943, la strage di Portella della Ginestra del 1° Maggio 1947, le ammazzatine e le vendette di mafia che hanno segnato tutta la seconda metà del ‘900 in Sicilia, ma soprattutto, da quando la mafia ha iniziato a colpire direttamente i simboli dell’informazione, come i giornalisti Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Mario Francese, Carmine Pecorelli, Giuseppe Fava e Beppe Alfano, o dello Stato Italiano, come Giuseppe Russo, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Alfredo Agosta, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ninni Cassarà, Govanni Falcone e Paolo Borsellino (ma ce ne sarebbero molti altri, spesso non menzionati nelle cronache, perché trattavasi di morti che non facevano notizia ndr), Cosa Nostra e più in generale la mafia uscirono da quel regionalismo che ne aveva fatto soltanto “una questione siciliana” per entrare di diritto nelle cronache e nei tribunali nazionali, ma non solo.
È a causa di questi morti, della narrazione di questi fatti, dei processi inquinati, delle corruzioni, della paura, che allo stereotipo della Sicilia mafiosa è stato permesso di durare e diffondersi, come una malattia. C’è da rabbrividire quando il dolore, la prepotenza e la prevaricazione di stampo mafioso diventano un semplice strumento di marketing o, peggio, un modo per identificare la Sicilia e i siciliani.
Non scorderò mai quando in gita a Londra al liceo, il commesso di un negozio di souvenir guardò il nostro gruppo di diciassettenni esclamando “Oh, Sicilia, mafia!”. Nessuno di noi rise o annuì. Ci sentimmo offesi. Perché è così che dovremmo sentirci noi siciliani quando nel resto del mondo vale l’assioma Sicilia=mafia. Non è accettabile che nel 2022 si faccia pubblicità utilizzando quello che erroneamente viene definito “black humor”, perché vi assicuro che i morti e le famiglie delle vittime di mafia non stanno ridendo. Noi non stiamo ridendo.
Già diversi anni fa la Corte Europea si era occupata di restituire dignità e rispetto alle vittime di mafia, contestando il marchio del ristorante spagnolo La Mafia se sienta a la mesa (letteralmente “la mafia si siede a tavola”), dichiarando il marchio «invalido per tutti i beni e servizi in contestazione». Ma questo non pose fine alla questione, al punto che fino allo scorso anno un nuovo ristorante in Germania ha deciso di sfruttare il “brand mafia” a fini commerciali. Oggi, però, una sentenza ha ridato voce e valore alla parola giustizia. È stato, infatti, deciso dai giudici di Francoforte sul Meno che non potrà più utilizzare i nomi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, pena un’ammenda fino a 250mila euro o una condanna fino a sei mesi di reclusione, il ristoratore Constantin Ulbrich, finito al centro di critiche e polemiche per avere chiamato il suo locale "Falcone e Borsellino" completando l’insegna del ristorante con grafiche che simulavano segni di colpi di arma da fuoco. Sui muri del ristorante, inoltre, il titolare aveva appeso la celebre foto di Tony Gentile che ritrae insieme il magistrato e il giudice palermitani, assassinati 30 anni fa da Cosa Nostra, peccato che quello che per molti giovani della mia generazione è un simbolo di legalità e lotta fosse affiancato all'immagine di don Vito Corleone, personaggio del film “Il Padrino” di Francis Ford Coppola.
Questa scelta non era piaciuta assolutamente a Maria Falcone, sorella del giudice e presidentessa della Fondazione che porta il suo nome, la quale aveva fatto ricorso per inibire al commerciante l’uso del nome Falcone. Sebbene in primo grado l'istanza fosse stata respinta perché «Falcone ha operato principalmente in Italia e in Germania è noto solo a una cerchia ristretta di addetti ai lavori e non alla gente comune che frequenta la pizzeria» (queste le parole del tribunale, che sosteneva inoltre che, essendo passati 30 anni dalla morte di Falcone, il tema della lotta alla mafia non era più così sentito tra i cittadini), i giudici di appello hanno però ribaltato la sentenza di primo grado, accogliendo il ricorso presentato dalla professoressa Falcone. Nella sentenza definitiva, depositata nei giorni scorsi in tribunale, la corte ha disposto il divieto di uso «della denominazione commerciale "Falcone” da sola o come parte di una denominazione commerciale, in particolare come nome della pizzeria "Falcone e Borsellino", su insegne, menu, materiale pubblicitario, su internet, su Facebook e su Instagram nell’ambito dell’attività commerciale». La corte inoltre ha riconosciuto che Maria Falcone abbia una legittima pretesa al diritto alla richiesta di risarcimento, in base al diritto al nome e al diritto alla personalità post mortem.
«La violazione del diritto alla personalità post mortem del giudice Falcone da parte di atti commerciali discutibili perché contrastano con la sua vita e il suo lavoro è fondamentalmente da approvare», scrivono infine i giudici.
Tutta questa faccenda mi ha fatto riflettere: non è che stiamo sbagliando qualcosa? Qualche giorno fa una mia amica ha raccontato che durante una giornata di letture per ragazzi, organizzata in concomitanza con il trentennale delle stragi di Capaci e Via d’Amelio, è rimasta sconcertata quando un bambino le ha chiesto candidamente “Ma chi era Borsellino?”. Ecco. Penso, allora, che sia arrivato il momento di colmare il vuoto che è chiaro dilaghi nelle menti e nei cuori dei siciliani della nuova generazione, ma soprattutto nell'immaginario collettivo che si ha della Sicilia all'estero, perché è evidente che non siamo stati capaci di trasmettere, attraverso le storie delle lotte di tutti coloro che hanno permesso a noi siciliani di gridare a gran voce che “LA MAFIA È UNA MONTAGNA DI MERDA!”, quel messaggio di legalità e speranza con le quali i trentenni o poco più che tali siamo cresciuti. Perché la Sicilia e i siciliani sono soprattutto altro e perché è la mafia che andrebbe dimenticata e non le persone che hanno perso la vita per combatterla.
©riproduzione riservata