
Una nuvola di vapore sfuma dal camino di un treno e lascia intravedere, come un miraggio, i colori di una campagna siciliana da cartolina. Dentro uno dei vagoni di quello stesso treno è in viaggio il figlio del Caos: Luigi Pirandello, che del binomio concretezza-disordine ha fatto il suo stile letterario.
Al grande drammaturgo, scrittore e poeta siciliano, il regista Roberto Andò dedica La Stranezza, la commedia presentata alla 17° edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public e uscita nelle sale il 27 ottobre.
Una commedia, che il regista palermitano ambienta in una Sicilia degli anni ‘20, dove Luigi Pirandello (Toni Servillo) ritorna per celebrare il compleanno di Giovanni Verga. Ma la morte della sua balia comporta un cambiamento dei piani; così, lo scrittore va ad assistere alle esequie di quella donna amata come una parente e ordina il servizio di pompe funebri. Proprio in questa circostanza incontra i becchini Onofrio Principato (Salvatore Ficarra) e Sebastiano Vella (Valentino Picone), due macchiette del mondo popolare, che fanno parte di una compagnia filodrammatica. Entrambi, dovranno occuparsi della tumulazione della donna che tarderà a causa di un’amministrazione comunale negligente e corrotta. Per uno scherzo del destino, o forse no, lo scrittore rimarrà in Sicilia più del previsto e comincerà a studiare Onofrio, Sebastiano e tutta la compagnia, calati in un mondo grottesco. Lo sguardo divertito, disorientato e turbato di Pirandello scruta i personaggi, dalle prove fino alla messa in scena del dramma/scontro fra platea e attori, che insinuerà in lui l’idea del teatro nel teatro e dell’opera che andrà in scena nel 1921 al Teatro Valle di Roma: Sei personaggi in cerca d’autore.

Roberto Andò, guidato dalla biografia di Pirandello regalatagli da Leonardo Sciascia, dona agli spettatori un piccolo gioiello, in cui immagina la genesi dei Sei personaggi in cerca d’autore costata allo scrittore durante la prima, l’accusa di “pazzo e impostore”.
La stranezza, insieme alla visione geniale e all’intuizione del teatro come “Finzione dove ci si traveste per sembrare quello che non si è”, pone l’attenzione alle voci: da quella interiore e inquieta dello scrittore, a quella dei suoi personaggi, che lo tormentano dalle 8.00 alle 13.00 del mattino per chiedergli udienza; fino a quella del pubblico, che diventa parte attiva e vuole dire la sua. A queste, si aggiunge anche la voce di un mondo popolare siciliano pieno di tradizioni, ritualità, legami forti e indissolubili; e contraddizioni, come l’ossequio verso i defunti messo da parte di fronte al dio denaro o la moralità delle parole, che vacilla nei fatti.
La visione che restituisce la pellicola è quella di una Sicilia d’altri tempi, con abiti e ambientazioni caratteristiche e intime: da Agrigento a Catania, fino a Erice, Palermo e Trapani. Una terra, che affascina con i banchi di carrube e pomodori stesi al sole e, attraverso il dialetto, simpatizza sia con lo scrittore sul set, sia con gli spettatori in sala, rompendo la “quarta parete” dello schermo. Il pubblico è così proiettato in una realtà “arcaica”, intrisa di antiche litanie, filastrocche, detti popolari e modi dire: “Salutamu e cacciamu”, “Dumani è duminica ci tagghiamu a testa a Minica, Minica non c’è ci tagghiamu a testa o Re…”. Una realtà cara a Pirandello tanto da frequentare le botteghe per conoscere le “storie di corna” e il tribunale di Agrigento, per assistere ai dibattimenti forensi.
Un mondo, dunque, vivo di tante forme e personaggi che si incontrano e scontrano per dare ispirazione allo scrittore siciliano e che fa insorgere, fino all’ultimo, il dubbio di essere al cospetto di un sogno.
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