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Vitaliano Brancati: D’Annunzio e la fine della retorica vuota

2021-12-07 17:24

Paolo Fai

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Vitaliano Brancati: D’Annunzio e la fine della retorica vuota

Nella parola “dannunzianesimo” si addensa una miscela di stilemi poetico-letterari dal virtuosismo ricercato e di comportamenti trasgressivi superomis

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Nella parola “dannunzianesimo” si addensa una miscela di stilemi poetico-letterari dal virtuosismo ricercato e di comportamenti trasgressivi superomistici “al di là del bene e del male” promananti da Gabriele D’Annunzio, il poeta, anzi il poeta-soldato, come amava mostrarsi, più influente in Italia, nella letteratura e nel costume, ma anche nell’ideologia, vitalistica e bellicistica, di una lunga stagione che va dall’ultimo decennio dell’Ottocento al primo trentennio del Novecento.

È noto poi che il poeta di Pescara, con la sua “vita inimitabile”, le sue gesta eroiche (la beffa di Buccari e il volo su Vienna, durante la prima guerra mondiale) e anti-sistema (l’impresa di Fiume, dopo la guerra), con scritti e discorsi, fornì un notevole contributo alla formazione dell’ideologia fascista, diventando l’intellettuale di riferimento ancorché, alla fine, imbarazzante per Mussolini.

Fu una vera malattia contagiosa, il dannunzianesimo, a cui ben pochi “hommes de lettres” cresciuti nel torno di tempo sopra indicato riuscirono a sfuggire, tanto che Eugenio Montale (1896-1981), nel saggio introduttivo all’edizione garzantiana delle poesie di Guido Gozzano (1883-1916), poteva scrivere che il poeta de “L’amica di nonna Speranza” e delle “buone cose di pessimo gusto” «era naturalmente dannunziano, ancor più naturalmente disgustato del dannunzianesimo»

Quel virus attaccò anche Montale, che se ne liberò presto, battendo altre vie e altri maestri cercando e trovando, da Leopardi agli stranieri moderni e contemporanei, che tradusse e imitò, e al gruppo degli antidannunziani intransigenti che si stringeva attorno a Piero Gobetti (1901-1926), il giovane intellettuale liberal-democratico torinese per le cui edizioni uscì, nel 1925, la prima raccolta di versi di Montale: Ossi di seppia.

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Se ora ricordiamo la diffusa influenza nefasta di colui che Alberto Arbasino definì, trent’anni fa, con felice calembour, “il dandy cariato” e di cui, qualche mese fa, il compianto Roberto Calasso, nel bel libro-omaggio a Bobi Bazlen, Bobi, scriveva che nel 1925 «la prosa italiana viveva allora sotto la cappa di D’Annunzio, sontuosa per obbligo, spesso soffocante, iperlavorata senza necessità», è per celebrare gli ottant’anni di “Singolare avventura di Francesco Maria”, uno dei più belli e significativi racconti di Vitaliano Brancati (1907), lo scrittore originario di Pachino, ma catanese di adozione, morto nel 1954 a Torino durante un intervento chirurgico.

Scritto nel 1941 e poi confluito nella raccolta Il vecchio con gli stivali e altri racconti, Bompiani 1946, “Singolare avventura di Francesco Maria” è un piccolo capolavoro, sia per le intrinseche qualità narrative, sia per la catartica ironia con cui Brancati faceva ammenda – appena tre anni dopo la morte di D’Annunzio – della fascinazione che il dannunzianesimo aveva esercitato su quella generazione di scrittori la cui adolescenza si plasmò negli anni del fascismo incipiente e del dannunzianesimo trionfante.

Il racconto – divertente presa in giro sia dello stile merlettato e ampolloso del Vate pescarese sia delle romanzesche avventure sentimentali dei personaggi delle sue opere – ha per protagonista il giovane Francesco Maria Lanteri, originario di Pachino, che ha avuto la disgrazia di imbattersi nelle dannunziane “Laudi” e di infatuarsene, a tal punto che aveva issato «in cima a una parete il ritratto» dell’ineguagliabile poeta e “amadore”. Recatosi a Catania per acquistare l’opera omnia del Maestro, nell’albergo in cui alloggia incontra una sua giovane concittadina, Maria Sapuppo, che a Catania insegna come maestra.

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Si piacciono subito, anche perché pure la Sapuppo adora D’Annunzio (quando a Francesco Maria, nella sala da pranzo dell’albergo, «toccò di sedere vicino» a lei, la Sapuppo stava leggendo il “Fuoco”). Lui vorrebbe andare al dunque, lei risponde: «“La mia vita è limpida come quella di un anacoreta. Però nelle mie vene fermenta un fuoco nero”. Abbassò la voce: “Non ho peccato, ma sono una peccante!”».

«Se Maria Sapuppo – sogghigna Brancati – avesse detto: sono una peccatrice, forse Francesco Maria, terminata la cena, l’avrebbe salutata, magari baciandole la mano, e lasciata al suo destino di graziosa maestra elementare e onesta ragazza di paese. ma ella aveva detto: peccante. Eh, peccante no! Peccante era una parola che gli entrava come le dita nelle dita, e lo teneva legato col suo calore umano e umido, proprio di belle dita che leggermente sudino. “Eh, peccante, peccante!”». È «l’amore per i vocaboli rari e il disprezzo per i comuni» che fanno capitolare Francesco Maria davanti alla Sapuppo, la quale, da parte sua, era «ormai incapace di dominarsi col pensiero di somigliare a Elena Muti», la femme fatale protagonista del romanzo “Il Piacere” del poeta-vate.

Sulla sua guarigione dal fascismo, esemplare poi la confessione di Brancati nel capitolo su “I piaceri del buon senso” della raccolta di pensieri diversi intitolata «I piaceri – Parole all’orecchio», Bompiani 1943: «Io per mio conto, quando la mattina recito il Padre Nostro, intendo per pane quotidiano anche il buon senso. Devo a questo la mia guarigione dalle orribili malattie del secolo che mi assalirono giovanissimo, da quegli errori funesti che nessuna luce di gioventù riesce a dorare. (Anzi, vorrei allontanarmi il più possibile dai miei vent’anni, anche a costo di averne cinquanta; e se penso che, quindici anni fa, uno sciocco disponeva della mia firma, mi vien voglia di concludere che, in certe epoche, non bisognerebbe mai avere vent’anni.) Al buon senso devo la mia vera gioventù e gli estremi piaceri delle mie passeggiate».

Superfluo chiarire che “lo sciocco” era il Calvo di Predappio, il Ciarlatano del bagnasciuga, il suddito hitleriano delle infami leggi razziali, o il Buce, il Truce, Primo ministro delle bravazzate, Eiettatore delle scemenze, Primo maresciallo (maresciallo del cacchio), nel Dizionario dei sinonimi di Carlo Emilio Gadda.

Ma il più efficace e direi definitivo giudizio su D’Annunzio lo diede, nel cinquantenario della sua morte, nel 1988, il poeta Andrea Zanzotto. Intervistato, assieme ad altri poeti, scrittori, studiosi, su «Tuttolibri-La Stampa», Zanzotto liquidò così il “Vate degli italiani”: «D’Annunzio... ha avuto difetti macroscopici perché ha annegato tutto in una colluvie di retorica e la stessa sua fuga nel Vittoriale mi è sempre parsa l’idea di uno che si seppellisce nei suoi escrementi».  

 

 

©riproduzione riservata 

Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Siracusa. Numero di iscrizione 01/10 del 4 gennaio 2010

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