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NON SOLO UNA RECENSIONE: CON AMURUSANZA SI PARLA DEL MESTIERE DELLO SCRITTORE. SI PUÒ CAMBIARE IL MONDO CON L

2020-06-12 13:11

Redazione

NOTE, Note LIBRI, L'amurusanza, Tea Ranno,

NON SOLO UNA RECENSIONE: CON AMURUSANZA SI PARLA DEL MESTIERE DELLO SCRITTORE. SI PUÒ CAMBIARE IL MONDO CON LA POESIA?

La riflessione sul libro di Tea Ranno, "L'amurusanza" e sul mestiere dello scrittore

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di Giuseppe Varone

 

L’amurusanza, di Tea Ranno, è un romanzo fragoroso, stuzzicante, incontenibile, tirannicamente liberatorio, concepito in un linguaggio espressionistico, stratificato, a tratti sperimentale, specie sul piano della sintassi. Una narrazione moderna, nonostante il suo allure antico, con il suo incedere libertario, spedito, spia di una rinuncia alla forma tradizionale del romanzo, perlomeno a quella di un passato lontano, ricollegabile piuttosto a un’altra tradizione, quella dei romanzi siciliani del Novecento – dei grandi, come Bufalino, Consolo, Tomasi di Lampedusa, Vittorini, e anche un certo Sciascia – capaci di offrire una riflessione sulla Storia, sull’attualità, con lo scopo di rivendicare la sensibilità verso il proprio tempo, con i suoi problemi e le sue contraddizioni di sempre, come pure nel suo incanto e nella sua bellezza, isole imperiture di fascinosa e incantatrice poesia. Come loro, la Ranno scrive con la speranza di una società nuova, a partire dal potere della parola. Infatti, questo romanzo, attraverso uno stile molto personale – che solo a tratti ricorda la verve del Camilleri sceneggiatore, là dove incede la lingua dell’eros, dell’assoluzione e della caratterizzazione umoristica; la solennità alla De Roberto, in scene come il funerale; il mascheramento vagamente pirandelliano nel trattare “gli altri”, coloro verso i quali progressivamente l’autrice accosta il lettore, fino a farli vedere da molto vicino  – è capace di evocare e rendere idee, emozioni e situazioni attraverso immagini concrete, pur nella loro astrazione, in contemplazione di elementi del tutto fantastici: malinconia e dolcezza, gioia e dolore, armonia e mafia. E come Manzoni, nella narrazione recupera zone di diretta comunicazione con il lettore, rinnovando quel dialogo diretto, filosofico, costruttivo, venuto meno nell’era della postmodernità.  

Si intuisce subito quanto per l’autrice scrivere sia innanzitutto una vocazione e anche un mestiere, per la passione, l’impegno e l’ingegno nella costruzione della pagina letteraria. Un impegno che è anche, e forse soprattutto, lotta con e nella realtà, nonché recupero e rimescolamento di se stessa in quella lotta che la scrittura in sé presuppone, condivisa con un’umanità che assurge sempre a simulacro del genere umano intero. Ecco, dunque, un microcosmo che sintetizza sentimenti, emozioni, sensazioni, violenze, inquietudini e problematiche del genere umano perduto e ritrovato.

La sua scrittura è anche una meravigliosa opera di artigianato, di ricerca scrupolosa, enciclopedica e munita di dizionario bilingue; scrittura che intaglia ora a ritmo battente ora a sottovento dell’immobilismo dell’universo raccontato, passato, memoria, presente, dunque civiltà e realtà. Utilizza una lingua totale, o se si preferisce totalizzante, a forte densità metaforica, capace di cogliere e rappresentare un insieme che, per quanto riconoscibile, carnale, visibile, in alcuni casi edonistico giacché fonte di piacere, acquista sempre una levatura allegorica; con il suo carattere al contempo antico, classico, arcaico, ricco del quotidiano, del popolare, della storia, del sociale, quindi del dialettale. Sì, quel dialetto che imbriglia e domina sotto forma di sedimento linguistico, che viene disseppellito e lordato, per far parlare veramente i personaggi, concreti e fantasmatici. Innesti organizzati con consapevolezza del risultato fonico, metrico, ma soprattutto valoriale, poiché rispondenti alla più importante delle ricerche, ossia tarare la narrazione a quel molteplice livello del modo di pensare dei personaggi, nelle diverse stratificazioni sociali, economiche, professionali ed etiche. Risponde, dunque, all’arduo compito etico di rendere in una lingua multiforme e mai barocca il volto composito del genere umano, colto nelle pieghe di temi relativi e sociali, in grado di nascondere e presupporre quelli più metafisici e assoluti. Tutto ciò senza concedere troppo spazio a ragionamenti e sofismi, prediligendo la forza riposta nell’azione, nel dinamismo della scena, quella del teatro antico, del quale con molta probabilità, anche per motivi biografici, la Ranno avverte il legame, nello sceneggiare questa primavera di siciliani, questa adolescenza di una parte della Sicilia, colta in una porzione di storia che diventa storia di civiltà, risultato di incroci, deviazioni, spostamenti, trasformazioni. Quindi Sicilia e il suo microcosmo come simbolo di una rinascita, generata da un reciproco arricchimento, sintetizzato nei vari comportamenti dei personaggi.   

E perché Sicilia, potremmo chiederci. Al di là del fatto che è siciliana, e che il tono rende ad ogni modo l’ambientazione Sicilia «per avventura», c’è da rilevare quanto quell’insieme di odori, colori, sapori, tenzoni, emozioni e contraddizioni si avvertano armonicamente, e diremmo anche unicamente, in una Sicilia che è insieme letteraria e vera. Un’armonia tutta poetica e realistica, dissonante e pura, ammaliante e calorosa, che si può percepire fisicamente, annusando, ascoltando, gustando, per l’alito che dalla sua lingua, dalle sue architetture, leggende, tradizioni, difficoltà e atmosfere, si fanno parola e civiltà, documento, incrocio, arricchimento, scontro, spostamento, concerto, suonato rivolgendosi a quel tu, lettore, che si fa più accentuato, là dove necessita di alzare la voce, poiché alta è la posta in gioco, come nel discorso, coraggioso e sicuro, sulla malavita.

In un costante e dinamico gioco degli equivoci e dell’assurdo, a colpi di ricatto, denaro sporco e insano erotismo, risaltano la meschinità del Pupo e Puparo, il miserabile Pallante, simbolo dell’anti-politica, emblema della malvagità, dell’ignoranza, della malavita, della corruzione e dell’inquinamento, che solo la pioggia e l’amurusanza possono lavare, combattere e debellare. Sua Eccellenza, che come l’occhio malvagio di Sauron, tutto vede, spia, controlla e comanda dal suo balcone, da papa nero. Quale godimento intercettare il pianto del cattivo, assistere all’inizio della fine del potere, infine al suo decesso da “fottuto”.

Di contro, preminente e viva, la bella, per quanto inconsistente, presenza di Costanzo, accanto ai barlumi di felicità di coloro intorno ai quali gravita, i personaggi che hanno commercio con Agata – la quale, grazie allo spirito di Costanzo, non muore mai –. Ogni pagina è rorida del desiderio di cambiare il mondo a colpi di poesia, per combattere l’ignoranza, a partire dai libri, e soprattutto, straordinario, da ciò che si vorrebbe essere, poiché non basta contrariarsi, lamentarsi, denunciare, ma occorre anche seminare vita e contentezza, saper orientare il proprio futuro in funzione dell’altro; fare la propria parte, dunque, partendo dalla consapevolezza che la vita è ancora vita, e che come tale va interpretata e vissuta, con leggerezza e nudità, ma in special modo con amurusanza; donne e uomini, insieme e uguali; un necessario cambiamento di coscienza, determinato anche da ciò o da chi si potrebbe considerare marginale o impossibile, come il potere di un animale, Patuzzu – che per le sue facoltà pressoché soprannaturali ricorda il Bendicò de Il Gattopardo e il Nerone de La Garibaldina, il canuzzo che consentirà a Lucietta di ritornare a impastare mondi e soprattutto a riappropriarsi del suo, che ora recupera l’odore di vaniglia di sua madre e il sentimento per qualcuno, dopo aver gioito di una vincita e versato lacrime proustiane rileggendo una ricetta – più umano di certi esseri umani, come i proci, dai nomi-simbolo, come altri personaggi della storia; quel prete poco prete, ma proprio per questo prete al quadrato, il quale ha il coraggio di interrompere la messa, e nella sua complicità con il maresciallo, nel suo sodalizio eversivo avviato in un clima da guerra fredda, nel quale i nemici della comunità sono i neri e i comunisti, dice a gran voce che siamo tutti fratelli e uguali. E tutto questo risponde in sostanza alla strategia di Costanzo, che tutto vede e per ognuno agisce, senza essere visto da tutti e senza poter essere agito, libero, come lo era sempre stato. Non una vendetta, la sua, bensì un riscatto, dallo schifo, a colpi di umiliazione inferti al sindaco-padrone e ai suoi seguaci, metafora imponente della persistenza del bene e del male, nella storia, nella società e in ciascun essere umano. Sì, perché, per quanto esistano avvisaglie di bellezza, questa da sola non basta: occorre amore. E per amare, consapevolmente e quindi in modo anche costruttivo, per sé e per gli altri, come lo sanno bene Agata, Roberto, Lucietta, Lisa e gli altri, bisogna ripartire proprio dalle ferite, poiché quando si sanano possono tramutarsi in bellezza e generare amore. Per fare ciò occorre possedere, tutelare e condividere una propria stanza dell’anima – come quella, suggestiva, di Lucietta – poiché è in quella soltanto che germoglia la speranza, che in quanto tale presuppone l’azione. Agire, appunto, da un modo diverso di vedersi e di vedere, di concepire se stessi, gli altri, la comunità, senza mai rinunciare alla lotta per un suo cambiamento. Per questo, allora, viva tutte le figure femminili, da Agata a tutte quelle che le gravitano e le graviteranno intorno, con il suo fascino magnetico e misterioso; e viva il parroco, il dottore, il professore, il maresciallo, i bambini – con e senza l’avvincente stratagemma della lettera da imbucare e del gelato – insomma tutti quelli che negano lo schifo del malaffare, della corruzione e di quel mare di spazzatura. Viva quella fame di realtà, di corpi, come la fame della bella Violante, che diviene eccezionalmente anche amore per Dio; l’emancipazione di Letizia Greco, la sua nudità, quel sapore di rinascita che generando disordine riscatta; la processione di anime rosse che rappresentano un vivo corteo di felicità.

E tra i tanti stimoli tuona il ricorso al cibo per l’anima e per la mente, per quell’impresa di inaugurare per la comunità tanto un ristorante quanto un cinema, una libreria e un posto dove poter ascoltare la musica; il tutto a partire dall’esperienza sensoriale ed emotiva di inusuali pietanze, simbolo di un godimento della bocca e dell’anima, nonché di una condivisione del piacere. Quel brindisi commovente alla Tabacchera, che preannuncia la sua candidatura e quindi l’inizio del cambiamento, per una fame di bontà e di felicità, di odori e sapori diversi, come quelli metaforici del pranzo inaugurale de Il piacere: il piacere della vita, che compendia e traduce in lacrime e sorrisi ogni malinconia, dolore, solitudine, godimento provato o desiderato. Seduce la forza dell’amicizia, del gruppo, dello stare insieme: «quello che sogno io continua quello che sogni tu, e i nostri sogni insieme fanno il cunto magico di questa mescolanza di vita che siamo tu e io».      

L’amurusanza è dunque memoria, martirio e passione; è Odissea, che insegna quanto vivere (veramente) il mondo e il corpo significhi abitarli consapevolmente.

 

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