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La pandemia di colera che investì la Sicilia nel 1837 raccontata nell'ultimo libro del prof. Giuseppe Astuto

2021-11-29 12:46

Mario Blancato

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La pandemia di colera che investì la Sicilia nel 1837 raccontata nell'ultimo libro del prof. Giuseppe Astuto

Nell'attuale epoca della pandemia da Covid-19, analizzare i dati del passato può aiutare ad imparare dalle scelte di allora

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È uscito a maggio del 2021 il nuovo libro del prof. Astuto Giuseppe, dal titolo "L’Ottocento il secolo del colera" (edito Sampugnaro Pupi, 2021).

Astuto è docente di Istituzioni politiche presso l'Università degli Studi di Catania e in tale ruolo si misura con un tema, che certamente nuovo non è. Esso, infatti è stato trattato già da un secolo attraverso studi particolari e da punti di vista sociali e politici, oltre che naturalmente dal punto di vista prettamente sanitario. Ma l’autore, in questa occasione, con la consueta saggezza e profondità di ricerca (archivi, centrali e periferici, carte notarili e penali, ricordi e memoria di studiosi del tempo) allunga lo sguardo oltre gli stretti confini dell’Italia e inquadra l’arrivo e le conseguenze del "morbo asiatico" all’interno del quadro politico che si era formato dopo il Congresso di Vienna, con il ritorno del Borbone Ferdinando IV, la ricongiunzione della Sicilia al Regno di Napoli e con l’asprezza di regimi repressivi, conservatori e assolutisti formatisi dopo Waterloo, conduttori di una povertà sociale di dimensioni spaventose.

Alcuni capitoli (i primi due) sono stati scritti dalla prof. Elena G. Faraci, anche lei dell’Università degli Studi di Catania, che descrive in maniera chiara, lineare e accurata, le riforme borboniche a partire dal 1817, con le modifiche delle leggi amministrative per tutto il Regno delle due Sicilie, con le quali vennero elaborate due riforme importanti: la prima (la monarchia amministrativa) riguardava la struttura gerarchica del nuovo stato, con il principio della sovranità statale sulla pluralità di ordinamenti di luogo e di ceto; la seconda fu la suddivisione del Regno in Province (7 in Sicilia) Distretti e comuni. Gli organi amministrativi (Intendenza, Sindaci e amministratori) erano scelti dal Re o dal ministro dell’Interno attraverso le terne, scelte dalle cosiddette liste degli eliggibili, che venivano redatte da funzionari governativi attraverso il meccanismo censitario corretto da criteri di merito. In tal modo scompariva il primato politico della nobiltà civica, poiché si favoriva il reclutamento, oltre che dei proprietari terrieri, anche dei titolari di arti, professioni liberali, civili e laureati, che fino ad allora erano rimasti esclusi dal potere locale.

Le riforme borboniche avevano anche messo ordine nell’assistenza ospedaliera, che fino a quel momento era gestita dalle Congregazioni religiose. Era decisamente un disegno di centralizzazione e di verticalizzazione, completato con il Testo Unico del 21 maggio del 1819. Ci furono anche provvedimenti innovativi in campo economico: il feudalesimo era stato abolito nel 1812, Ferdinando I aveva promosso lo scioglimento dei diritti promiscui, che gravavano sulle terre feudali e avevano impedito fino ad allora la libera commerciabilità, e la quotizzazione dei demani. L’obiettivo era la suddivisione delle grandi proprietà per renderle accessibili alla borghesia terriera e mercantile.

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Ma tutto questo non aveva prodotto nessun miglioramento delle classi subalterne, perché la liquidazione, per esempio, dei demani comunali favorì le vecchie aristocrazie e i nuovi ceti sociali. Altri provvedimenti avevano creato grosse resistenze: la coscrizione obbligatoria, le imposte di registro e bollo e soprattutto i dazi sui consumi alimentari. Le condizioni di miseria dei contadini e dei braccianti erano impressionanti. Anche la nobiltà nutriva rancori contro il governo eversore della feudalità, il ceto industriale e commerciale vedeva nel protezionismo napoletano il sacrificio delle attività produttive dell’Isola; inoltre i proprietari terrieri erano in fermento contro il nuovo catasto, che avrebbe aggravato l’imposizione fondiaria; c’era, in sostanza, una generale avversione per l’accentramento degli affari a Napoli. 

Il choléra (il mortifero vomito orientale) era nato in Asia, Cina e Giappone verso il 1827, nel 1830 era arrivato in Francia, nel 1835-37 in Italia. Ci si interrogava sulle caratteristiche del morbo, ma la scienza medica non era ancora pronta per dare una risposta seria e scientificamente verificata dall’esperienza. Si vagava nel buio, nella superstizione, nei pregiudizi, nell’ignoranza. 

Durante l’estate 1837, si diffuse in un baleno l’idea del colera–veleno, alimentata dalla paura e dalla disperazione popolare, si registrarono tumulti sanguinosi con centinaia di presunti avvelenatori, massacrati dalle folle inferocite. Molti patrioti, utilizzando il malcontento, si collocarono su posizioni apertamente indipendentiste.

Da queste premesse parte il prof. Astuto per analizzare, nel dettaglio, i tempi, i modi con cui si procedette in Sicilia e poi soprattutto a Catania e Siracusa, che furono le città che registrarono morti, malati, esplosione di violenza cieca, e ardimentosi progetti politici. A Palermo la situazione era tragica. Il colera mieteva vittime a migliaia, a partire da luglio 1837. I cadaveri restavano nelle strade e la ritardata tumulazione rendeva ammorbante l’aria già corrotta. Non c’erano né impiegati né becchini. La gente si era sparsa nelle campagne. Il conflitto sociale fece il resto, dal momento che non c’era commercio e tutte le attività, financo i panifici, erano chiusi. Non c’era nessun tipo di lavoro.

Tra il popolo si sparse la voce che il veleno fosse stato ordinato dallo stesso re; anche la classe colta ed illuminista della città ritenne che il veleno provenisse da Napoli, per ordine del sovrano. Naturalmente, non c’era nulla di vero in tutto questo. Il regime dei Borboni, non aveva saputo contrastare efficacemente la pervasività del colera, ma non era certamente colpevole della sua triste diffusione. Anzi Michele Amari, che lavorava presso l’Intendenza, scrisse (nella Descrizione del choléra) che il governo aveva operato con fermezza e con insolito rigore, mentre il volgo vedeva ovunque veleni ed avvelenamenti. Ma in quei terribili giorni del luglio 1837, tutti i gatti erano bigi. Anche Domenico Scinà, infatti, e l’arcivescovo di Palermo, Gaetano M. Trigona, erano convinti che il choléra fosse il veleno dei Borboni.

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A Siracusa il 21 aprile veniva designato, attraverso la terna delle liste eliggibili, quale sindaco di Siracusa Emanuele Francica, barone di Pancali, attorno al quale si unirono settori della massoneria (in primo luogo, la Timoleonte) e della carboneria. In Pancali si individuava la persona adatta a risollevare la città dalla prostrazione politica, amministrativa e sociale, come scrisse il Privitera, “cittadino di umani sensi verso i poveri e di grand’uomo e saldo a sostenere liberamente in faccia a qualunque prepotenza i diritti del popolo”.

Quando arriva il choléra, si predisposero lazzaretti e ospedali, cordoni sanitari, si apprestarono barelle e carrette per il trasporto dei malati, si raccolsero medicine e disinfettanti, si destinarono aree per la sepoltura dei cadaveri fuori dalle mura della città. Ma la gente, preoccupata e diffidente, cominciò a parlare di untori, di sostanze venefiche sparse nell’aria, sui cibi, nelle fontane. Si diceva apertamente che il governo borbonico diffondeva il veleno per ridurre l’eccessivo numero di sudditi. L’apparizione del morbo coincise con i preparativi per la sommossa liberale anti-borbonica: Gabriello Carnazza da Catania, Carlo Gemelli da Messina, Giovanni Piraneo e Luigi Orlando da Palermo avevano già preso accordi con i patrioti di Siracusa per coordinarsi e fare scoppiare l’insurrezione in occasione della festa di santa Rosalia a Palermo. Ma di fatto non si farà niente, perché l’accelerazione dell’insurrezione si scontrò con il desiderio di eliminare il veneficio.

Il 18 luglio (il fatal giorno) gruppi di popolani, operai e contadini, armati di archibugi, bastoni e accette si misero insieme a percorrere le vie della città aretusea, quando improvvisamente incontrarono uno straniero, Joseph Schweitzer, che venne raggiunto e portato in strada. Si gridò subito al miracolo, perché era stato scovato l’untore, l’avvelenatore. Si ringraziava Santa Lucia per la scoperta dell’untore. Il sindaco Pancali, intervenuto, pensò bene di istituire una commissione di sessanta cittadini, con il compito principale di ripristinare l’ordine pubblico, provvedere all’annona e alla riscossione delle imposte, mentre il giudice Francesco Mistretta venne incaricato di istruire subito il processo contro gli accusati di procurato veneficio. Ma la folla nonostante queste formali disposizioni, non si fermò, aspettando con ansia che Mario Adorno, il capo dei liberali di Siracusa, stringesse un patto con il Pancali per lavorare insieme “per il bene dell’umanità”.

Malgrado tutto, le uccisioni continuarono. Vennero massacrati l’ispettore Antonio Li Greci ed il figlio, l’intendente Andrea Vaccaro, molti “cagnotti” della polizia, molti commercianti sospettati di commercio clandestino di veleni, il commissario Giovanni Vico Statella. 

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Il processo all’untore Schweitzer iniziò il 20 luglio del 1837. Il cosmorama, (come veniva chiamato l’imputato) terrorizzato dalle continue minacce di morte, offrì una versione incredibile, e forse surreale, pensando di potersi così salvare: raccontò di essere al servizio del Governo francese, che aveva incontrato un tedesco, conosciuto per caso a Milano, noto spargitore di veleni, tale Bajnard, il quale gli avrebbe confidato di avere alle spalle una “grande potenza”, che avrebbe voluto che lui spargesse veleni, liquidi o in polvere, per le strade di Siracusa se avesse visto movimenti contro l’assolutismo del governo. Ci voleva poco per capire che si trattasse di una pura fandonia. Ma quelli erano tempi in cui la ragione si era ecclissata, nascosta tra le grotte di Pantalica. D’altra parte, quando c’è fanatismo ed ignoranza allo stato brado non c’è ragione che tenga. Si può togliere oggi dalla testa di milioni di persone che il vaccino non porta il microchip di Bill Gates?

Si fecero le perquisizioni nella casa del cosmorama. Ma tutte le analisi prodotte risultarono negative. Infine venne analizzata una polvere bianca, che assoggettata ad un esperimento con il carbone acceso, rimaneva imbiancata. Una piccola dose venne lanciata ad un cane, per testarla sull'animale, ma il cane dopo fremiti e convulsioni morì. Si trattava semplicemente di ossido di arsenico: il veleno tanto cercato! Viva santa Lucia!

In queste circostanze maturò il manifesto del 21 luglio, con il quale si informavano i siracusani e tutti i siciliani che finalmente era stato trovato l’untore principale e che tutto era stato originato dalla volontà del regime borbonico di annientare il popolo siciliano. Quindi bisognava reagire. La firma è di Pancali, ma lo stesso Pancali definì poi quel manifesto come “fatale e sedizioso”. In realtà il manifesto era stato scritto da Mario Adorno in persona.

Catania subito rispose che si stava apprestando a proclamare la sua indipendenza con i quattro proclami che la Giunta provvisoria della città aveva redatto.

La successiva deposizione dello Schweitzer fu un colpo: “Io non ho fatto niente. Fate di me quello che volete”. La filosofia di Mario Adorno, che aveva giurato sulla teoria del veleno-choléra, sembrò infranta. Ma poi lo stesso Schweitzer, convinto da Adorno, rilasciò questa altra dichiarazione, che riassumo: “Il colera è un veleno, preparato da una tenebrosa setta per i governi (Francia, Germania e Inghilterra); lo stesso commissario Del Carretto è un emissario spedito a Siracusa per spargere il tossico”. Questa nuova confessione sbandò ancora di più, perché non si capì bene chi spargesse il veleno. Fra i liberali crebbe la delusione, perché falliva, per questa incertezza, l’insurrezione preparata. Nel frattempo (siamo già a 4 di agosto) arrivò la notizia della nomina del Marchese del Carretto ad Alto Commissario con pieni poteri a capo di 4.000 soldati. Ma l’ordalia non si arrestò: la folla inferocita corse al carcere. In un baleno furono trasferiti in piazza Duomo 14 persone che, davanti ad una folla esultante e disperata, vennero fucilate. Fra quelle anche il cosmorama e la moglie, Anna Maria Lepik.

L’alba del nuovo giorno (6 agosto) trovò i cittadini della provincia di Siracusa ancora in preda ad episodi di odio, furore popolare, assedi alle carceri, uccisioni di civili e autorità, in cui si mescolavano il terrore del morbo ma anche vendette private e conflitti di classe, braccianti e contadini contro proprietari terrieri, come a Floridia, Sortino e Avola.

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Del Carretto era convinto che l’uccisione di tante persone ed autorità fosse opera dei liberali, con il pretesto dell’avvelenamento. L’agitazione e la ferocia della folla erano state la conseguenza politica di una sommossa antiborbonica preparata in anticipo. Con queste convinzioni egli entrò dentro le mura di Ortigia. Bisognava dare alla città una punizione esemplare, così scrisse al Re. Del Carretto poi minacciò la città: “La città di Siracusa non è degna di rimanere capoluogo del Vallo!” (in effetti da lì a poco, la denominazione di capoluogo di provincia fu spostata a Noto, titolo che ritornò a Siracusa solo nel 1865 ad opera di Filippo Cordova e Francesco Crispi). Venne nominata una commissione militare ad hoc. Con il bando del 4 settembre vennero elencati gli individui ricercati per la partecipazione ai moti. Fu così che le carceri si riempirono di cittadini: Avola 134, Sortino 141, Floridia 120, solo per citare alcuni comuni.

Mario Adorno venne arrestato con il figlio Carmelo ed entrambi furono fucilati in piazza Duomo, come esempio per tutta la città, per terrorizzarla. Con loro alte 13 persone. I liberali, ma anche tanti semplici cittadini siracusani, furono destinati alle carceri con lunghi anni di pena. Alla fine il bilancio fu di decine e decine di morti, cui si aggiunsero centinaia di condannati all’ergastolo, ai ferri, alle deportazioni o nelle anguste e fetide stanze delle carceri. Del Carretto scrisse al Re: “La Sicilia è conservata”.

La Chiesa si mise ad organizza processioni e riti di espiazione: così il colera diventò un castigo di Dio e non opera del governo borbonico.

Per non esacerbare ancora di più gli animi dei sudditi siciliani, il Re ordinò, nel mese di ottobre del 1837, di interrompere i processi in corso e sospendere tutte le esecuzioni di condanna. L’anno successivo (1838) venne promulgata un’amnistia per tentare di fermare le bande armate che si stavano formando tra tutti i cittadini che erano scappati dalle città e che erano usciti dalle carceri.

 

 

 

©riproduzione riservata 

Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Siracusa. Numero di iscrizione 01/10 del 4 gennaio 2010

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