Il grano era stato finalmente mietuto, trebbiato, raccolto e trasferito al sicuro nei granai delle masserie o dei latifondisti (quand’anche nei granai delle abitazioni dei piccoli proprietari) e nelle campagne era ritornato il silenzio, rotto soltanto dal frinire delle cicale, dallo zirlare dei grilli o dal chiurlare dei merli.
Le ciurme dei contadini, ritornati ai propri paesi d’origine, si erano sciolte in attesa di ricomporsi a settembre, quando avrebbero raggiunto le terre della marina del vastissimo territorio di Melilli pa vinnigna (per la vendemmia).
I latifondi e le terre della collina iblea venivano lasciati al pascolo delle pecore, che brucavano le ristoppie prima di essere bruciate per preparare la terra alle prime piogge autunnali e alla successiva aratura e semina del frumento.
In questo tempo “vuoto” (prima di riprendere quel lavoro di comunità qual era a vinnigna) le famiglie contadine raccoglievano carrube, fichi, sommacco, mandorle, ecc. e preparavano le conserve da consumarsi nei mesi invernali.
La vendemmia era molto attesa (era l’aspirazione, il guadagno e la gioia di tutta la famiglia) perché impiegava molta manodopera: “Infatti, nella vendemmia, che richiede d’esser fornita in ristretto spazio, tutti trovan lavoro, villici e artigiani, mulattieri e carrettieri, vecchi e giovanetti e fino ai facchini e fannulloni di piazza. E anche le donne vi piglian parte. […] anche le artigiane trovano che non è disdoro l’andarvi, ma beneficio pur delle loro famiglie”. (S. Salomone Marino, Vendemmia).
A differenza della mietitura (dove si registrava la presenza di ciurme provenienti anche da altre zone della Sicilia e della Calabria) nella vendemmia era in genere tutta la famiglia che partecipava alla raccolta dell’uva; sul luogo di lavoro si ritrovavano, infatti, anche diversi nuclei familiari che costituivano la ciurma.
In un vasto vigneto, oltre ai vendemmiatori, erano tanti, dunque, i lavoratori che espletavano diverse funzioni, come: u carritteri (colui che guidava il carretto), u mulatteri (chi possedeva una mula), che varrili (barili) che venivano riempiti do mustu da trasferire in paese o nelle masserie.
I vinnignanti (i lavoratori che raccoglievano l’uva), comprese donne e ragazzi, si trasferivano nella vigna alle prime luci dell’alba per essere pronti non appena il proprietario dava inizio alla raccolta.
Era il proprietario o u suprastanti (il soprastante) ad assegnare a ciascun vendemmiatore/ vendemmiatrice il filare di vigna da vendemmiare, mettendovi a capo u capurali (il caporale) o u capufila (il capofila) alternando anziani a giovani.
In mezzo alla fila, poi, vi era u carriaturi (colui che trasportava l’uva), che cu na ranni curbetra (corbello) nne spatri(sulle spalle) raccoglieva a racina vinnignata (l’uva vendemmiata) per andarla a depositare nno parmentu (nel palmento).
Prima di iniziare la vendemmia u capufilaru (il capo del filare d’uva) si faceva il segno della croce e recitava: Sia laratu e ringraziatu u santissimu e divinissimu Sacramentu e tutti i lavoratori rispondevano: Sempri sia laratu.
Subito dopo iniziava la raccolta dell’uva e con essa u baccanali: “Gli uomini stuzzican le donne, le punzecchiano ferocemente in tutte le guise, sieno vecchie o giovani, brutte o belle, maritate o nubili. […] Non mancano, poi, pizzicotti tra i due sessi, ed urti e toccatine che si suppongono e pretendono accidentali; ma anche questo non conduce che a conseguenze di risate e baiate, specialmente contro le donne attempatelle o bruttine”. (S. Salomone Marino, cit.).
Oltre alle battute, spesso salaci, la facevano da padrone anche i canti, mentre le donne, in sottana, recidevano i grappoli dai tralci e li mettevano nei grembiali che tenevano rimboccati; poi, quando i grembiali erano pieni, andavano a svuotarli nei cofani che erano posti tra i filari.
Mentre si lavorava, dunque, si cantava: Haiu ‘n giardinu di rosi e ciuri,/ l’acqua ci manca e l’ha fattu siccari;/ si me maritu nun ci metti amuri,/ d’autri mi lu fazzu abbivirari. (S. Crescimanno, La vendemmia).
Raccolta a racina nno parmentu (l’uva nel palmento), cominciava il secondo tempo caratterizzato dalla pigiatura dell’uva, che veniva fatta dall’omini do parmentu (dagli uomini del palmento): i pastaturi (i pigiatori) ca pistavunu a racina (che pestavano l’uva) a srati (a strati) e successivamente la spingevano entro il palmento, dove si faceva u ripistu (il ripesto).
I pistaturi (i pestatori) per non scivolare e cadere, con il rischio di farsi male, si aggrappavano con una mano alle corde che pendevano dal tetto e con l’altra si tenevano a nu trirenti (un forcone) che serviva anche a spingere sotto i piedi gli strati d’uva, che veniva pigiata con gli scarponi.
Scrive Crescimanno: “Aggrappati con una mano alle corde che pendevano dal tetto e tenendo nell’altra una pala di legno, andavano avanti e indietro stritolando l’uva con gli scarponi; saltavano battendo i piedi con rabbia”. (S. Crescimanno, cit.)
U mustu (il mosto) spumeggiante prodotto dalla pigiatura dell’uva, dopo aver attraversato un filtro che veniva messo per trattenere i raspi, andava a raccogliersi nei tini sottostanti, in attesa di essere trasportato, con appositi varrili (barili), dai carritteri (carrettieri) nelle masserie o in paese.
Un tempo, prima de’ carritteri (dei carrettieri), erano i vardunari (i mulattieri) che trasportavano u mustu (il mosto) con gli otri, che venivano messi nne vertuli (nelle bisacce).
Scrive ancora Crescimanno: “Scendevano dal paese quando suonava la piula dell’orologio della Matrice. […] Il suono della piula spandevasi tetro nel silenzio della notte e i mulattieri arrancavano in piccole comitive, silenziosi, coi fazzoletti attaccati attorno alla testa, le pipe in bocca tirando le mule per le redini. […] Arrivavano in campagna quando stava per tramontare la stella dell’alba. Sull’aurora tornavano in paese e nel silenzio mattutino il suono delle loro brogne spandevasi per le campagne mestamente”. (S. Crescimanno, cit.)
Alla fine della faticosa giornata, i pistaturi (i pigiatori), dopo aver lavato i piedi, mangiavano un piatto di minestra e un pasticcio di ortaggi (peperoni, melanzane, cipolle e pomodori).
Quindi andavano a riposare le membra stanche della faticosissima giornata.
Scrive Salomone Marino: “La fatica del pistaturi è veramente enorme, per tutto il dì e buona parte della notte; e a durarla per due interi mesi ci vuole la provata fibra dei nostri contadini. Ei dicono con un proverbio, che questa parte di lavoro della vendemmia è più grave ancora di quello della trebbiatura: Megghiu centu àrii, ca ‘na vinnigna”.
Con la fine della vendemmia, si concludeva la penultima fase della stagione agraria e nella campagna iblea ritornava il silenzio rotto solo de’ campani delle pecore e de’ campanacci dei buoi.
La campagna tornava ad animarsi nei mesi di novembre e dicembre con la raccolta delle ulive: le ciurme de’ scutulaturi(bacchiatori) e delle raccoglitrici di ulive, ancora una volta, raggiungevano i latifondi per l’ultimo atto del ciclo agrario.
Conclusa la raccolta delle ulive, la campagna si avviava verso il lungo e rigido inverno caratterizzato dalle piogge che permettevano di arare e seminare il terreno in previsione di una nuova stagione agraria.
E così il ciclo agrario riprendeva il suo corso.
Di Paolo Magnano
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