Lo spettacolo teatrale “Adele Centini, vedova Isastia”, rappresentazione estrema di un rapporto distorto tra madre e figlia, offre un quadro impietoso, paradossale e, tuttavia verosimile, dell’immoralità che può covare nel nido per eccellenza, la famiglia. L’opera è la trasposizione di uno dei capitoli del romanzo “Le case del malcontento” di Sacha Naspini, ambientato in un borgo scavato nella roccia ed i cui personaggi, che si aggirano come male ombre, rappresentano gli abissi di un’umanità alla deriva.
Perché in quel borgo, tra gli spuntoni del destino, la vita non è acqua di ruscello, ma un rovinare di sassi e pietre che il cielo sputa senza pietà a ogni passo breve. Un’ispida frazione in cui vige la legge dell’ignoranza, che da sempre fa rima con la miseria, dove serpeggia la sopraffazione e la vendetta a passo lesto avanza. Esistenze drammatiche lasciate al caso in cui tragedia e farsa si mescolano sul palcoscenico della vita come su quello del teatro.
Lo spettacolo, tenutosi nell’Auditorium di Melilli, per la regia e la drammaturgia di Tatiana Alescio, coglie le vicende di tre protagonisti: Adele, impersonata dalla stessa Tatiana Alescio; la crudele madre, mai nominata, rappresentata da Rita Abela; il colonnello Isastia, senza nome, né volto, a cui offre la sua voce fuori campo Pietro Montandon. I costumi sobri, marchio dell’indigenza delle due donne, sono stati realizzati da Maria Accolla; l’assistenza alla regia è stata affidata ad Aurora Trovatello; infine, l’organizzazione è toccata a Valeria Annino.
Lo spettacolo ha già debuttato al Teatro “Garibaldi” di Avola, all’ex convento di San Francesco e a Campobello di Licata. A tessere la trama è la madre di Adele, bastonata dalla vita, senza un briciolo di bellezza, infatti, né soldi in tasca, poiché il marito, partito per la guerra, non è più tornato. Lei, madre di parto e di volere matrigna, individua in Adele il suo mezzo di riscatto.
L’occasione le è offerta su un piatto d’argento, visto che il colonnello ha bisogno di servitù fidata al castello Isastia. Adele, dunque, viene Assunta e la madre la obbliga a trattamenti di bellezza, sfibranti per la loro crudezza, insegnandole, tra l’altro, l’arte del corteggiamento.
L’attempato colonnello, cinquant’anni in più di Adele, in un primo momento, non resta turbato dalle fattezze e dall’affabilità della giovane, ma, pian piano, la vigoria del desiderio – che tiene sempre a bada – in lui si fa strada. Il finale sembrerebbe con i fiori di arancio, ma, si sa, che il degrado è una veste attaccata alla pelle e che lo strappo non è mai un drappo. E sotto le stelle di un cielo universale il percorso è tracciato, vibra l’ordine delle cose, anche se a volte non sembra naturale.
di
Lucia Corsale